La vita in città ha una caratteristica ben definita: siamo tutti vicini, ma tutti distanti. Al pari di un’infrastruttura stradale che connette il distante e separa il vicino, la città ha spezzato i rapporti interpersonali che connotavano la vita comunitaria del villaggio. Chi abita la città gode di emancipazione e anonimato, di libertà e sperimentazione, ma è sempre meno capace di osservare e relazionarsi con l’alterità. È il fenomeno descritto dal sociologo Georg Simmel all’inizio del secolo scorso, agli albori del fenomeno dell’inurbamento massiccio: il cittadino è sottoposto a una mole ingestibile di stimoli, suoni, accadimenti a cui è impossibile dare una risposta senza perdere la stabilità psicologica ed emotiva. Per proteggersi da questa incessante sollecitazione, sviluppa l’attitudine blasé, una distanza dagli eventi e dalle persone, un’astrazione personale della vita, più misurabile e gestibile. Del resto, sarebbe impossibile salutare tutte le persone che incontriamo quotidianamente su una strada di città, come invece avveniva in una realtà di paese.
Lo sfilacciamento dei rapporti interpersonali, coniugato con il benessere economico che l’Europa ha vissuto nel secondo dopoguerra, ha portato al progressivo abbandono degli spazi pubblici a favore di una vita domestica sempre più comoda e isolata. La famiglia tradizionale si decompone, i nuclei abitativi diventano sempre più piccoli e la città si trasforma in un insieme di atomi e monadi che hanno difficoltà a comunicare tra loro.
Sono un architetto e queste sono le riflessioni che guidavano, anni fa, la scelta del tema della mia tesi di laurea. Sentivo la lontananza e la solitudine delle persone, soprattutto quelle più adulte, che avevo intorno. Ero steso sul divano di casa e mi chiedevo: “Ma cosa succederebbe se tirassi giù il muro che divide il mio salone da quello del vicino?”. Ho pensato che si sarebbe creato dello spazio in più e che avremmo potuto mettere un biliardo e giocare insieme, invece che annoiarci da soli, divisi da una parete. Ovviamente non era tutto così semplice e mi sono serviti mesi di studio per capire la complessità del ricucire i rapporti interpersonali a partire dalla casa. La mia tesi, alla fine, sviluppava un modello di cohousing in cui ogni nucleo familiare aveva una propria abitazione privata affacciata su uno spazio condiviso, in cui i coabitanti potevano incontrarsi, passare del tempo insieme e svolgere attività che nel proprio spazio privato non potevano fare.
Un dato molto interessante è emerso da un questionario che ho sottoposto in fase di elaborazione del progetto di tesi. Le domande interrogavano il tempo libero, lo spazio domestico e il loro rapporto reciproco. Dall’analisi delle risposte ho notato che moltissime persone erano frustrate perché non riuscivano a usare il tempo libero come avrebbero voluto, per due motivi cruciali: “non ho spazio in casa” ma soprattutto “non ho nessuno con cui farlo”. La solitudine e la standardizzazione degli spazi domestici ingabbiano molti dei desideri delle nostre vite.
Il questionario aveva svelato un’ulteriore questione: più del 65% degli intervistati sosteneva che, se fosse stato possibile, avrebbe condiviso una parte del proprio spazio abitativo con i propri vicini, per ottenere supporto, vicinanza, amicizia. Il cohousing è quindi un’esigenza inespressa, un’alternativa che non ha corrispondenza nel mercato immobiliare. È per questo che, appena laureato, mi sono confrontato con la possibilità di organizzare un cohousing. Ho messo un annuncio e poche settimane dopo incontravo 40 persone che volevano provare l’esperienza. C’era chi voleva vivere in città, chi al mare o in campagna, chi voleva tenere per sé solo una stanza e chi invece desiderava condividere solo una sala per le attività. Ma c’era soprattutto un problema: tutti si rivolgevano a me e non riuscivano a comunicare tra di loro. Non dovevano abitare con me, dovevano abitare tra di loro. Eppure non erano capaci neppure di immaginare uno scambio. Deluso, ho chiuso il progetto, ho scritto un paio di articoli su una rivista sull’importanza e sulle possibilità che apre la vita in condivisione e poi ho messo tutto in un cassetto.
È per questo che sono rimasto così sorpreso quando sono entrato in contatto con la realtà di Koinoikia: una rete di case abitate da giovani che si preparano all’età adulta riscoprendo il valore della messa in comunione come elemento fondamentale della vita umana – e urbana. Un progetto che non ha fallito prima di nascere, ma che dura da dieci anni e rappresenta un tassello dei modi di abitare dell’VIII Municipio. Quando ho conosciuto chi abitava nelle case di Koinoikia, ho subito chiesto se c’era una selezione per entrare e come funzionava economicamente. Mi hanno detto che è necessario essere indipendenti economicamente e che bisogna pagare un affitto, ma che questo è calmierato e ponderato sulle possibilità di chi entra nel progetto. Come una bilancia che si abbassa per permettere al più debole di salire, per poi aiutarlo a raggiungere il livello di chi era già in grado di aiutare. Koinoikia rende concreta un’altra delle dinamiche che guidava le mie riflessioni, sia al tempo della tesi che degli articoli successivi: l’importanza della condivisione per l’integrazione e il supporto delle condizioni economiche o personali fragili. Una dinamica che riattiva la speranza nell’efficacia dei rapporti sociali e interpersonali, così come la speranza – di una persona momentaneamente fragile – che ci sarà qualcuno che può prendersi cura di lei. Ma anche la mia speranza, quella di chi scrive questo articolo con il desiderio di far conoscere il progetto di Koinoikia, augurandosi che i semi germoglino in altri terreni oggi silenti, e che la condivisione – di spazio, di attenzioni, di cura – torni a essere un ingrediente delle nostre città così atomizzate.
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