Dal 30 ottobre al 2 novembre si svolgerà il Giubileo del mondo educativo. Centrale il ruolo svolto dagli insegnanti a scuola e nella società, spesso in condizioni difficili, ma con una dedizione che va ben oltre la trasmissione del sapere. Per approfondire il significato dell’insegnamento oggi, abbiamo incontrato Eraldo Affinati, scrittore, docente e fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati che oggi conta 65 postazioni didattiche in tutto il Paese. Autore di diversi libri che intrecciano letteratura, pedagogia e impegno civile, Affinati rappresenta una voce autorevole nel panorama educativo italiano, soprattutto per il lavoro svolto con i cosiddetti “ragazzi difficili”. L’ultima sua opera, in libreria dal 9 ottobre, s’intitola “Per amore del futuro. Educare oggi” (Ed. San Paolo), un manifesto per la scuola italiana.
(Foto: Issr Marvelli)
Professor Affinati, come definirebbe oggi il senso profondo dell’istruzione?
L’istruzione è il luogo fisico e mentale in cui, come in una staffetta, si passa il testimone da una generazione all’altra. Allo stesso tempo la scuola forma e modella le coscienze dei futuri cittadini, ripensa la tradizione e la rinnova attraverso l’elaborazione del senso critico. Oggi, in particolare, la rivoluzione digitale assegna ai docenti una responsabilità ulteriore:
mostrare ai ragazzi la differenza fra informazione e conoscenza
rifondando, anche con l’uso delle più recenti tecnologie, l’esperienza della realtà.
Lei sostiene che la pedagogia deve essere anzitutto incontro, il sapere responsabilità, e che la valutazione dovrebbe cedere il passo alla cura…
Dico spesso che dobbiamo puntare tutto sulla qualità della relazione umana fra professori e studenti, in mancanza della quale non possiamo stabilire un rapporto di fiducia fra gli uni e gli altri.
Per chi insegna, assumere la responsabilità dello sguardo altrui resta fondamentale.
Le regole sono importanti ma non sufficienti. Non basta indicare il rispetto di un precetto, bisogna saperlo incarnare. Questo, del resto, vale anche per i genitori.
Come essere buoni insegnanti in un mondo che cambia a ritmi vertiginosi, tra nuove tecnologie, multiculturalismo e aumento delle povertà?
Ogni insegnante, prima ancora di diventarlo, dovrebbe interrogarsi sulle motivazioni che lo spingono a fare questa scelta, che non possono essere solo economiche. E’ necessario, come diceva Sant’Agostino,
parlare col proprio maestro interiore
per comprendere le ragioni profonde della nostra attitudine educativa. Questo si può fare, oltre che nella riflessione personale, anche attraverso la pratica operativa. Basta entrare qualche volta in aula per renderci conto se si tratta di un’attività a noi congeniale oppure no. In caso positivo, sarà affascinante affrontare le sfide che ci attendono.
Foto UNESCO*/SIR
Quali sono, secondo lei, le qualità fondamentali di un buon docente?
In “amore del futuro”, riflettendo sui miei quarant’anni di insegnamento prima negli istituti professionali, poi nella scuola Penny Wirton, lo definisco in sette modi: “specialista dell’avventura interiore”, “responsabile della parole scritta e orale”, “mazziere della giovinezza”, “ginnasta dell’adolescenza”, “timoniere degli scalmanati”, “artista dei tempi morti”, “giudice senza codici”. Alla base di tutto bisogna avere un interesse non strumentale nei confronti delle persone che ci vengono affidate.
Di quale tipo di sostegno hanno bisogno oggi gli insegnanti: formazione, riconoscimento economico e sociale?
Avere un maggior riconoscimento economico e sociale rispetto a quello che oggi ci viene riconosciuto credo sia indispensabile; tuttavia il vero sostegno, una volta effettuato il lavoro interiore cui prima ho accennato, un insegnante oggi lo potrebbe ricavare da
una migliore strutturazione del cosiddetto villaggio educativo:
in sostanza non dovrebbe essere lasciato da solo, ma formato a un lavoro di gruppo, ferme restando le “idiosincrasie” individuali che vanno rispettate perché le sensibilità e i caratteri di ciascun docente sono la sostanza stessa dell’azione educativa.
Oggi certe scuole sembrano più uffici, dove impera la burocrazia, che “laboratori”. Che ne pensa?
E’ questo il problema più grande che oggi ci affligge. Troppo spesso un docente entra in aula già stanco per aver dovuto partecipare a riunioni, compilare moduli, verificare presenze e punteggi, lavorare al registro elettronico. Il momento più bello e anche più impegnativo, quello del confronto diretto coi ragazzi, rischia di essere appesantito e oscurato da tali incombenze che andrebbero invece perlomeno alleggerite e rese più flessibili.
Lei ha lavorato molto con ragazzi in difficoltà. Che cosa ha imparato da loro?
A conti fatti sono quelli che mi hanno dato di più.
Mi hanno fatto capire che ogni persona è sacra.
Chi sta male ti chiama in causa più di chi sta bene. Quando c’è un trauma bisogna indagare nel profondo. Spesso a scuola scopriamo ramificazioni che riguardano generazioni diverse: ecco perché nel mio ultimo libro ho reso omaggio a Carl Gustav Jung visitando la torre di Bollingen, sul lago di Zurigo.
E a proposito di ragazzi “difficili”, come si costruisce un ponte tra insegnante e studente quando il dialogo sembra impossibile?
Devi cercare di andare tu nel suo territorio. Indimenticabile per me si è rivelato il piccolo Victor, sorta di hikikomori romano col quale sono riuscito a dialogare solo attraverso il cellulare: eppure stavamo uno di fronte all’altro!
Quel giorno è stato lui a darmi una lezione sulla quale poi ho molto riflettuto.
Qual è il ruolo della scuola nella formazione della coscienza civile?
La scuola, nel momento in cui dispensa il sapere, insegna il bene comune che è la base per la formazione della coscienza civile.
Se oggi potesse rivolgere un messaggio agli insegnanti che cosa direbbe loro?
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