I dazi e la pancia degli Usa

Scritto il 02/11/2025
da Giorgio Borrini

Trump con i dazi non parla al mondo, ai mercati o ai leader stranieri. Parla all'America profonda. Alla pancia degli Stati Uniti. Alla sua.

Dall'inizio della nuova guerra commerciale, Wall Street è prima crollata, poi ha segnato nuovi record. Il mondo, prima scioccato, si è poi assestato: mercati trasformati in montagne russe, alla fine sempre chiusi con il segno positivo. Anche nell'economia Trump conosce una sola regola: esagerare, minacciare, far saltare il tavolo e poi negoziare per raggiungere un accordo. Lo sta facendo, un Paese dopo l'altro, fino alla Cina: negoziati bilaterali dove sul tavolo non finiscono solo tariffe, ma anche promesse di investimenti e accordi settoriali. Obiettivi americani ingessati per decenni, sbloccati proprio dai tavoli aperti dai dazi. "The art of the deal" è diventato geopolitica.

Parliamoci chiaro: per ogni liberale, i dazi sono una follia. Ma per Washington, oggi, non sono più un fine ma un mezzo: prima di comunicazione, poi geopolitico. Non servono a correggere gli squilibri del commercio mondiale, ma ad aprire tavoli e a lanciare messaggi identitari. Ogni annuncio è un segnale chiaro rivolto alle classi medie e più povere, quelle che negli ultimi anni si sono sentite tradite, umiliate e dimenticate.

Nessuna ideologia ma istinto, fiuto politico e tanta comunicazione. È lo stesso istinto che portò Trump alla Casa Bianca nel 2016, in quello che sembrava un incidente della storia ma che oggi, nonostante tutto, lo vede ancora protagonista.

Negli ultimi vent'anni anche negli Stati Uniti le disuguaglianze non sono mai state così nette. Il potere d'acquisto del salario medio è crollato. La presenza quasi incontrollata di immigrati clandestini, unita al libero scambio con Paesi in cui la manodopera non costa nulla, ha esercitato una pressione enorme sui salari delle classi più povere, composte da operai e impiegati di basso livello. Il costo degli studi universitari è ormai inavvicinabile per la middle class, in barba al tanto decantato sogno americano che un tempo permetteva anche al giovane più umile un'educazione d'eccellenza. Questo cocktail, shakerato con la sempre più ridotta leadership americana in politica estera, ha generato un profondo rancore sociale. Trump è effetto, non causa, di tutto questo.

La sua America non è quella delle élite, ma del sogno svanito. È quella che guarda al globalismo non più come a una promessa, ma come a una minaccia. Il nuovo slogan "Fair trade, not free trade" più che una politica economica, è una bandiera culturale. A questa America Trump offre continuamente una redenzione e un colpevole: la Cina, il Messico, il Canada o, perché no, anche l'Europa. Gli apparati interni, pur con riserve e contrappesi, supportano le scelte: la guerra commerciale del presente e del futuro è con la Cina, al di là dei vertici tra leader per calmare le acque. In prospettiva contro il Messico, rivale alle porte. E con Kamala sarebbe stato lo stesso, come lo è stato con Biden, tutto seppur spolverato da un linguaggio più elegante.

Molti analisti continuano a credere che Trump improvvisi. Non è così. Il primo, vero metro di valutazione della Casa Bianca sui dazi oggi non è l'impatto sui bilanci, ma la percezione diffusa in quell'America profonda che è spesso invisibile oltreoceano. Figurarsi qua. Quella grande fetta, oltre il 38% degli americani, che non possiede azioni e se ne sbatte del mercato e delle sue oscillazioni. Finché l'uomo comune si sentirà difeso, "Make America Great Again" resterà un patto, non uno slogan. E finché l'economia reggerà, nessuna critica internazionale scalfirà la convinzione che Trump stia combattendo, a modo suo, per l'America dimenticata. Soprattutto se davvero pensa a un terzo mandato.