Ci sono frenate che non rallentano, ma imprimono velocità al percorso. La cautela che il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti ha imposto alla prossima legge di bilancio appartiene a questa categoria.
Negli ultimi due anni la prudenza, nei toni come negli obiettivi, esercitata dal premier Giorgia Meloni e dal suo ministro ha evitato all'Italia costi ingenti. Ha contenuto il peso del debito pubblico e restituito credibilità ai conti, garantendo al Paese un vantaggio competitivo: gli investimenti esteri sono cresciuti di circa il 5%, attratti anche dalla flat tax riservata ai cosiddetti "Paperoni" che scelgono di trasferire residenza in Italia. Una misura che ciclicamente suscita polemiche, ma che di fatto ha trasformato il Paese in una piazza economica di crescente interesse.
Il paradosso è evidente. Il governo che molti, nel racconto progressista, dipingevano destinato a travolgere gli equilibri finanziari con politiche di spesa populista, si è rivelato l'opposto: l'Italia è diventata la formica d'Europa. Mentre la Francia (nella foto il presidente Macron) cade preda dell'instabilità politica, incapace di imporre le riforme necessarie per arginare un welfare ipertrofico tanto che Fitch declassa Parigi mentre promuove Roma l'Italia consolida i propri fondamentali. Mentre la Germania paga il prezzo di una crisi industriale aggravata da politiche ambientali spesso da essa stessa imposte a Bruxelles, l'Italia cresce grazie a turismo, terziario, moda e agroalimentare di qualità.
La sfida tattica è stata vinta. Giorgetti ha ragione quando ricorda che ciò è avvenuto in un contesto globale incendiato da guerre e tensioni geopolitiche. Ma ora si apre la partita strategica, anche in vista delle prossime sfide elettorali e di un secondo mandato che la premier chiederà agli italiani. Stabilizzato il paziente, ora si tratta di guarirlo in modo permanente.
Qui entrano in gioco le riforme di sistema. Quelle che possono incidere strutturalmente sulla produttività, sulla domanda interna, sulla riduzione della spesa pubblica. È bene ricordarlo: gli altri continenti viaggiano a tassi di crescita che l'Europa non può eguagliare. E l'ultima vera riforma italiana quella del lavoro, firmata Renzi risale a un decennio fa ed è stata in parte ridimensionata negli anni successivi.
Oggi l'esecutivo ha la forza politica per imporre al Paese i cambiamenti necessari. Deve trovare anche il coraggio di farlo, accettando il rischio di conflittualità sociale. Perché alcune riforme, al di là delle retoriche del no, sono inevitabili se si vuole garantire servizi efficaci ai cittadini.
La prima riguarda la sanità: superare il dogma del "pubblico ad ogni costo" e aprire a un modello misto, fondato anche sul welfare aziendale e sulla privatizzazione di alcuni servizi. La seconda, il costo del lavoro: concentrare ogni incentivo fiscale sull'aumento della produttività, premiando formazione e flessibilità. La terza, le infrastrutture: termovalorizzatori, impianti eolici, biogas, rigassificatori, dighe. Progetti troppo spesso ostaggio di vincoli ambientali esasperati o di opposizioni locali, a volte alimentate dagli stessi partiti di governo. Infine, la pubblica amministrazione: semplificazione, riduzione delle funzioni e quindi anche degli organici e dei costi.
Con numeri, stabilità e credibilità finalmente conquistati, l'Italia ha davanti un'occasione che non può sprecare. È il momento di superare la logica dei piccoli contentini di partito e di aprire un confronto vero con le classi dirigenti economiche, chiamandole a condividere la responsabilità del cambiamento.
Se non ora, quando?